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mettendosi a giocare con i razzi. Stasera, per esempio, una signora ha attribuito a tutta questa situazione la scomparsa del suo bambino di quattro anni. Quattro anni, non so se mi spiego!». A questo punto anche il contadino decise di rendere tutti partecipi delle sue espe- rienze. «Io una volta ho visto il Grande Piede» annunciò non senza solennità. «È suc- cesso nel Parco nazionale di Sequoia. Mi ricordo che era l'inverno del Cinquantuno. Ci aveva questo piede enorme, settantadue centimetri dall'alluce dalla punta al calca- gno, pensate un po'...» «Cosa pensare della stella di Betlemme che guidò i Re Magi fin dal Bambin Ge- sù?» domandò una vecchietta che teneva nelle mani una pesante Bibbia rilegata. «Gli astronomi non sono mai riusciti a fornire una sicura spiegazione in merito, no?» I tecnici della televisione si stavano divertendo un mondo. «Maggiore» chiese qualcuno. «Cosa c'è di vero in quelle baggianate del mostro di Loch Ness?» Più tardi, mentre si stavano avviando verso l'uscita, Neary e sua moglie vennero avvicinati proprio da Benchley, che subito offrì la mano a Roy: «Volevo solo dir- le...». «Perché cavolo l'altra notte i vostri elicotteri ci hanno quasi fatto a pezzi senza nes- sun preavviso?» gli gridò Neary. «Sentiamo?» «Roy...» mormorò Ronnie, imbarazzatissima. «Signor Neary, non so di cosa stia parlando. Volevo soltanto...» «Non le credo!» esplose Neary. «Non credo neanche a una parola di quanto mi ha detto, Benchley.» Il maggiore, come stordito da quello scoppio d'ira, indietreggiò. Ronnie tirò Neary per una manica. «Roy» gli disse. «Basta così. Basta!» Lo so- spinse verso l'uscita, poi lo lasciò accanto a un distributore automatico di bibite e tor- nò sui suoi passi per scusarsi con l'ufficiale. Neary inserì una moneta nel distributore, e si incamminò lungo il corridoio tenendo in mano il bicchierino di carta con l'aranciata. Cercava di spiegarsi quell'esplosione di poco prima. Di solito non le faceva quelle cose, anzi. Dopo tutto, Benchley non si era comportato male. Era uno che stava facendo il suo mestiere, no? Solo che il suo me- stiere, in questo caso, consisteva nel raccontare un sacco di balle. Si fermò a osservare una nicchia in una delle pareti. Continuando a sorseggiare la sua bibita aprì il pannello, come per caso, e vide che nascondeva centinaia di levette: erano i controlli dei vari circuiti elettrici dell'edificio. C'era anche una piantina espli- cativa, che Neary studiò per un attimo. Poi, con gesti rapidi, cominciò a muovere alcune levette, ogni tanto fermandosi a consultare la piantina. Poi riprendeva, non senza guardarsi intorno per assicurarsi che nessuno stesse avvicinandosi. A un tratto udì la voce di Ronnie: «Roy!». Sorridendo, Neary chiuse il pannello, prese sua moglie a braccetto e uscì dal palaz- zo dirigendosi verso l'area del parcheggio. «Roy, ma cos'hai? Cosa stavi facendo con tutte quelle levette?» «Non preoccuparti. Va tutto bene. Anzi, benissimo.» Si sentiva contento come un bambino. Come da parecchi giorni ormai non gli succedeva. Salirono sull'auto e Neary avviò il motore, poi partì a razzo verso l'uscita del cam- po militare. Davanti al posto di guardia si era formata una fila di automobili, e accan- to a esse sostavano gli occupanti: militari in uniforme, civili, e tutti guardavano la sa- goma del grande edificio di vetro nelle cui viscere si era svolta la riunione. Anche Neary fermò la macchina, e scese. Sì, era riuscito proprio bene. Muovendo quelle levette aveva oscurato alcuni edifici lasciandone altri accesi, secondo un preciso disegno. Ora, sulla vasta facciata del pa- lazzo di vetro, splendente al punto da poter essere osservata per un raggio di diversi chilometri, una serie di finestre illuminate formava una scritta gigantesca che pareva un annuncio e al tempo stesso un avvertimento. Diceva: UFO. Il fotografo del giornale e il cronista fissarono interdetti i quotidiani vecchi almeno di una settimana, buttati sul prato davanti alla villetta, e poi le bottiglie di latte andato a male abbandonate davanti all'entrata. Quindi si guardarono in faccia. Salirono i po- chi gradini della casa di Jillian Guiler e suonarono il campanello. Continuarono a suonarlo per vari minuti, poi bussarono. Cercarono anche di guar- dare dentro dalle finestre chiuse, e provarono sul retro, dove c'era la porta di servizio. Bussarono anche lì, ma senza esito. Eppure erano convinti che Jillian era dentro. Le fonti dell'FBI e della polizia avevano assicurato al direttore del giornale che la Guiler non si era mossa di casa. Alla fine dovettero desistere e si allontanarono. Dentro, Jillian aveva abbassato tutte le tapparelle, sprangato le porte e inchiodato assi all'interno delle finestre. Anche se aveva messo un po' di ordine in cucina, le altre stanze apparivano sottosopra: anche soltanto il fare i letti era divenuto troppo faticoso
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